MILANO 27 LUGLIO 1993
Attorno alle 23.00 del 27 luglio 1993, due vigili urbani transitarono con l’auto di servizio in via Palestro a Milano e furono avvicinati da un gruppo di persone che segnalarono la presenza di un’auto dai cui finestrini usciva del fumo.
Qualche minuto dopo giunsero i vigili del fuoco che notarono la presenza, all’interno del cofano, di un involucro di grosse dimensioni. Temendo trattarsi di un ordigno esplosivo, ordinarono di evacuare la zona. Mentre si procedeva all’operazione, il veicolo esplose uccidendo uno dei vigili urbani, tre vigili del fuoco e uno straniero extracomunitario che dormiva su una panchina dei vicini giardini pubblici. Almeno dodici persone rimasero ferite.
L’esplosione danneggiò, tra l’altro, il sistema di illuminazione pubblica, frantumò i vetri delle abitazioni in un raggio di circa 200-300 metri e lesionò il muro esterno del Padiglione di Arte Contemporanea sito sulla stessa via.
L’esplosione raggiunse la condotta del gas sottostante alla sede stradale che prese fuoco. Per ore i vigili del fuoco non riuscirono a domare l’incendio.
All’alba del mattino dopo esplose anche una sacca di gas formatasi proprio sotto il Padiglione. La seconda esplosione distrusse dipinti e danneggiò anche la Villa Reale, al cui interno aveva sede la Galleria d’Arte Moderna.
La strage di via Palestro seguì, a distanza di due mesi, quella di via dei Georgofili a Firenze; precedette di appena un giorno gli attentati alla Basilica di San Giovanni in Laterano e alla Chiesa di San Giorgio a Velabro a Roma.
Le sentenze l’hanno addebitata agli stessi esponenti mafiosi ritenuti responsabili della deliberazione di una sorta di “stato di guerra contro l’Italia”.
“Cosa Nostra” puntò a distruggere il patrimonio artistico italiano, compromettere le attività turistiche, uccidere indiscriminatamente, per imporre allo Stato di “venire a patti”, di eliminare i trattamenti penitenziari di rigore, di modificare la legge sui collaboratori di giustizia, di chiudere istituti penitenziari – come l’Asinara e Pianosa – ritenuti tali da impedire i rapporti tra i capi detenuti e i complici in libertà.